Le interviste impossibili LARRY MASSINO
F.M. Fuori dai canali ufficiali della comunicazione, gestiti e monopolizzati dalla medietà artistico-letterativa e dai suoi innumerevoli sodali e laudatores (praticamente tutti, con rarissime eccezioni), circola in modo abbastanza clandestino questo tuo annuncio-proclama:
“Sono fondatore e proprietario di OLC, opificio di letteratura clandestina, che ha il compito di osservare il lavoro quotidiano della macchina imparolatrice di mia stessa invenzione, che ha lo scopo primario di scrivere, entro il 2035, tutti i romanzi concepibili, anche quelli potenziali, del presente e del futuro, nonché di ricatalogare quelli del passato, anche quelli che avrebbero potuto essere scritti ma per una ragione o per l’altra non sono stati scritti. La mostruosa macchina, che lavora in segreto collocata in una enorme fabbrica abbandonata dai vecchi facitori di pezze di Prato, ha pure il compito di osservare l’evolversi e l’involversi del teatro italiano, forse il migliore del
mondo, negli ultimi 50 anni, ma adesso sempre più incartato. Questo secondo
compito lo svolge per passatempo, per amore e per semplice curiosità.”
Beh, se
alle parole farà seguito anche meno della metà dei fatti, siamo di fronte a una
vera rivoluzione, capace di scardinare, ridefinendoli nel quadro di una nuova
estetica, tutti i vecchi istituti del fare artistico. Siamo amici digitali da
oramai più di 10 anni, come del resto testimonia la pubblicazione sul mio sito
di diversi suoi articoli e di un libretto che pubblicai a occhi chiusi, senza
nemmeno tentare di fare, insieme a lui, un minimo di cura editoriale. Ma tanta
mi appariva la forza di quel testo che non mi sembrò necessario (a proposito, mi
ha annunciato che a giorni mi manderà una versione revisionata della
Nòva Fiorenza
https://rebstein.files.wordpress.com/2012/07/larry-massino-cronache-del-ducato-nc3b2vo.pdf,
di cui ho appena pubblicato sul sito delle significative
appendici
https://rebstein.wordpress.com/2021/04/21/prolegomeni-alla-nova-fiorenza/). Dopo
un paio di anni di assidua frequentazione, tutto a un tratto, è sparito nel
nulla, quel nulla, dice lui, che ci coccola come una mamma amorosa, dove tutti
quanti noi conviviamo in maniera un tantino più pacifica, senza il solito
coltello tra i denti. Poche settimane fa si è rifatto vivo, implorandomi di
pubblicare alcune sue cose e dicendomi che si è servito di questo lasso di tempo
per scrivere un’opera omnia (è megalomane, questo, pur amichevolmente, gli va
detto). Dunque volentieri gli ho pubblicato dei pezzi, mi accingo a rinnovare il
librettino fiorenzino e mi sono accordato di fargli un’intervista, la seguente.
FM: Vorrei iniziare questa nostra conversazione con la domanda che tutti i tuoi
estimatori vorrebbero farti. Sarebbe, questa, una buonissima ragione per non
farla, ma si dà il caso che io sia un tuo estimatore, e quindi… Allora,
mettiamola così: al netto del tuo eteronimo-ortonimo, e dei suoi tanti
eteronimi, chi è Larry Massino?
L.M. A prima vista sembrerebbe un giochino
stucchevole di marca pessoiana. In realtà si tratta di un uso di pseudonimo per
necessità, che iniziai a fare quando si affermò un autore teatrale che ha il mio
stesso nome, Gianni Clemente. Capite che in teatro non possono coesistere due
autori con lo stesso nome… Allora iniziai a usare pseudonimi, specialmente John
Lenient, che vuol dire Gianni (Giovanni) Clemente, o Tom Marinelli, o Larry
Piccolo, o Larry Generoso, fino al Larry Massino con con cui mi hai conosciuto
tu quando partecipavamo alle focose discussioni su Fazione indiana; soggetto
scaturito dal nulla, appunto, questo Massino, da dove va e viene, per
scompigliare un po’ le certezze di una genia di ambiziosi giovani narratori; che
di scrittori non c’è n’era uno, a parte forse Sergio Garufi (non quotato lo
scrittore certo Emanuele Trevi, che infatti partecipava alle discussioni solo
raramente). Si tratta di una covata di narratori che coprendosi le spalle con la
patina sociologica hanno cercato, in parte riuscendoci, di occupare l’intero
panorama letterario italiano, allineandosi dietro al portabandiera Roberto
Saviano, un giornalista modesto e un narratore ridicolo, anche marcatamente di
destra, se vogliamo dirla tutta, il che non sarebbe un male di per sé,
intendiamoci, ma è un male se diventa un’icona della sinistra che nessuno può
criticare senza pigliarsi del mafioso assassino, e che Bersani, appena ricevuto
dal Presidente della Repubblica un incarico esplorativo, convoca per le
consultazioni. Per tornare alla tua domanda su chi è Larry Massino, che come sai bene mai nascose le sue velleità letterarie diciamo così controcorrente, ti devo
confessare che però la sua natura è profondamente giocherellona, come un setter
inglese, insomma, sai quelli sale e pepe che scondinzolano da mattina a sera
come stessero eseguendo una danza permanente della coda? Perché Massino non è
altro che l’unificazione delle particelle mah, sì, no… Che poi non è altro che
l’atteggiamento che ho io, Giovanni Clemente, difronte alla cosiddetta comunità
culturale, che è raro non mi disgusti, così intrisa di persone compromesse con
il potere per via partitica, massonica, clericale ecc. Potrei esporti per filo e
per segno, per esempio, delle filiazioni insospettabili di artisti notissimi che
al pubblico si presentano come cavalieri della purezza, ma che debbono la loro
carriera in gran parte alla filiazione che hanno scelto o che si sono trovati a
dover scegliere per via familiare o amicale. Che so, il giovane figlio artista di un
massone, specialmente se rimasto orfano, figlio della vedova è l'esatta definizione, anche a sua insaputa ha diritto ad essere aiutato dalla
loggia del padre. Ciò vuol dire in pratica che gli mettono a disposizione una
infinita rete di contatti, se necessario di livello internazionale, ciò che gli
consente di trovare spazi per fare mostre, teatri per mettere in scena i propri
spettacoli anche quando sono scorreggine di infante, televisioni e radio per realizzare i loro programmucci, case editrici
per pubblicare i loro libri, ma dire libri è quasi sempre una grossa castroneria, trattandosi quasi sempre di involucri di carta macchiata dalle macchine stampatrici ecc. Ti faccio un esempio nella mia città, città,
Prato, in cui la duratura lotta tra clericali e massoni è ben rappresentata
dall’imperioso monumento – a pochi passi dal pergamo più bello del mondo,
sull’angolo destro della facciata del Duomo – al granmaestro Giuseppe Mazzoni,
fondatore nientepopodimeno che della loggia Propaganda, quella che diventerà un
secolo dopo la loggia P2 di Licio Gelli: io, che sono sì figlio di muratore –
muratore semplice, no massone, ma comunista berlingueriano simpatizzante di
Giorgio Almirante -, non ho mai, dico mai, fatto un lavoro nel principale
teatro, il teatro Metastasio, uno dei più titolati d’Italia, da quando appunto
la massoneria decise di riaprirlo, a fine anni '60 dello scorso secolo, dove però il figlio dell’importante massone,
che del teatro poi si è completamente disinteressato, orientandosi su altre
forme d’arte, ci ha debuttato a 20 anni poco più, celebrato come un Gassman
nascente dalla stampa cittadina, in particolare La Nazione, giornale
storicamente filomassonico, a quanto ne so. Così vanno le cose… D’altra parte questa insopportabile
ingiustizia ai danni dei non affiliati (vale anche per clero e partiti) va a
volte a danno dei protetti stessi, perché se uno ti favorisce la carriera a 20 anni è
raro che non ti porti verso la rovina, come fu il caso del mio concittadino e
fino a un certo punto amico fraterno Francesco Nuti, povero lui, aiutato alla
morte, è proprio il caso di dire, dal clero, pompato dalla critica là riconducibile (Gian Luigi Rondi) al punto da fargli credere
di essere Billy Wilder, invece che un bravo comico d’istinto che per diventare
attore, almeno attore, avrebbe dovuto studiare studiare studiare, come gli
suggerivo io disperatamente e come stavo facendo io, altrettanto disperatamente, abbastanza deriso da tutti quanti, ahimè
anche da lui. Studiare, doveva, altro che fare l’autore e il regista senza aver
letto e visionato quanto minimamente necessario. Ciò varrebbe anche per
quell’altro pratese ancora più noto, che però era ai tempi così baciato dalle
grazie che poteva davvero fare come gli pareva, la cui parabola, però, è passata
dall’anticlericalismo spinto di Raitre, diciamo, al papismo teologicamente
ispirato di Raiuno (ti ripeto, puoi essere d’animo pulito quanto vuoi, come lo è
la persona in questione, che solo per averci fatto ridere in quella maniera per
tanti anni, e qui mi riferisco proprio alla mia personale esperienza di
adolescente e giovanotto, meriterebbe di essere nominato Senatore a vita, ma che
dico Senatore, Granduca di Toscana, o ancora meglio Minorduca… ma fosse anche
che tu ottenga protezione involontariamente, in Italia non puoi far strada
alcuna se non sei coperto da una o l’altra delle principali fazioni). Roberto
Benigni, certo, che però oltre che dalle Grazie suddette si avvantaggiò leggendo di suo qualche ora durante la notte, perché pare che dopo una serata romana di bagordi
non riuscisse ad addormentarsi, come a me testimoniato da chi viveva sotto il
suo stesso tetto romano a cavallo tra i ’70 e gli ’80. A proposito di questo, quello che ha studiato
duro è invece il pure pratese Sandro Veronesi, come si può capire leggendo i suoi libri, in
particolare Caos Calmo, che a parte il titolo ossimorico del cazzo, è un vero
capolavoro. M’intendi, France’?
F.M. Ci sarebbe da parlare a lungo sul nostro
impegno demolitorio – sul tuo in particolare, che in quanto a impegno
demolitorio non ti batte nessuno…
L.M. Questo non è vero, SSS, cioè Sergio Soda
Star, nome di penna di Sergio Maria Cerruti, non a caso nipote del più
qualificato componente dei mitici Squallor, mi batte alla grande, anche in
abilità scrittoria, come pure testimonia il
raccontino sulla scuola
che pubblicò qua da te su mia sollecitazione.
F.M. Effettivamente anche lui è
un bel soggettino… Se volete un consiglio da un’oramai anziano poeta (?), da
anni ampiamente dimissionario, dovreste fare una società letteraria, in sostanza
diventare editori di voi stessi, anche con Davide Ruffini, che è più giovane di
voi ma sempre di più dimostra di avere la stoffa per diventare un importante
scrittore. Ma torniamo a te: all’interno della “fazione“ indiana, come dici tu,
e degli altri recinti letterari principali, miseramente crollati al suolo uno
dopo l’altro al seguito del miserabile fallimento del
Manifesto TQ
(qui rimando volentieri al tuo esemplare epitaffio dell’epoca
https://accademia-inaffidabili.blogspot.com/2013/06/la-prevedibile-fine-di-tq-mestamente.html),
già indicasti che stavi indagando in una zona pericolosa, almeno da noi,
confinata in uno spazio politico e letterario assai assai ambiguo. Del resto ti
indicavano con massima cattiveria come epigono di Houellebecq, dandoti cioè del destroide, per loro massimo insulto, come se Céline, mettiamo, fosse stato di sinistra, o Borges, o tanti altri; quando invece, se
proprio vogliamo trovare filiazioni, tu saresti più epigono di Macedonio
Fernandez, Vonnegut, Bolaño, Vila-Matas. Puoi illustrarci la genesi e le
finalità dell’Opificio letterario e il funzionamento della mostruosa macchina?
L.M. Prima di tutto di ringrazio per gli accostamenti a quelle divinità, che
però non credo di meritare. Per quanto riguarda la macchina imparolatrice, un
serpentone meccanico lungo circa 6 chilometri, è in moto oramai da qualche anno.
È battezzata Canterel ed è stata collocata in un complesso industriale di scarto
della vecchia industria dei fili intorcinati di Prato, spazio che mi è stato
donato da una famiglia benevola di mecenati che crede nella parola.
F.M.
Spiegacene il funzionamento.
L.M. Spiegare è davvero difficile, in questi rari
casi che fanno pianeta a sé. La macchina di Locus Solus di Raymond Roussell, appunto, che
tu conosci bene, si può spiegare? Non credo. La si può forse mostrare
descrivendola con puntiglio maniacale in un romanzo, ma non spiegare. Però, se vuoi, con la mia, di
macchina, posso tentare. Siamo nel campo della fisica quantistica (non so bene
bene cosa voglia dire, ma giù di lì si dev’essere per forza), cioè degli oggetti
di cui si sta tentando di provare l’esistenza senza produrli (così come si
conosce l’esistenza di miliardi e miliardi di pianeti che nessuno ha mai
osservato e forse non osserverà mai). E insomma, data per scontata, come
l’esistenza di Dio, l’esistenza della macchina, nessuno si deve meravigliare se
scrivendo dal 2095 -, come fa una delle voci narranti del primo tomo dell’opera
omnia, con cui a giorni mi butteranno fuori a calci dal “Calvino” (e faranno
bene, ciao Pincio) -, ne suppongo il pieno funzionamento in combutta con tutti
gli scrittori del mondo, praticamente metà popolazione, nonché con i lettori di
tutto il mondo, praticamente l’altra metà: un lettore per ogni scrittore, come
prevedeva quel genio vero che era Italo Svevo da vecchio, anche se
inevitabilmente c’è chi può averne anche dieci, di lettori, lasciano a
boccasciutta 9 suoi colleghi. E qui, però, niente allarmi e pianti disperati
(che palle il piagnucolio continuo di tutti quanti, anche il nostro, a volte).
Qui interviene infatti un’altra mia trovata, il recupero del roboto
dall’immondizia in cui si trovava, roboto che non è altro che un robot normale
in crisi esistenziale, il quale, invece di andare a insegnare all’università,
funzione per cui il pure geniale Tommaso Landolfi lo inventò, sta a casa a
leggere 24 ore su 24 testi, anche inediti mai letti da nessuno (da tempo
sostengo che legge anche i testi mai scritti da nessuno, ma è un’analisi
complicata per cui rimanderei al libro), senza protestare minimamente o
annoiarsi mai.
F.M. Il teatro è sempre stato al centro dei tuoi interessi, lo si
evince anche dalla lettura attenta (almeno la mia mi porta a questo
convincimento) di quanto hai scritto e vieni scrivendo, e non parlo solo di
contenuti specifici quanto piuttosto della struttura e dell’organizzazione
formale e stilistica dei testi, del linguaggio e della sua “manipolazione”
affabulatoria in funzione di un’espressione che è pura rappresentazione
dialogante. Vorrei che tu ci parlassi di questo specifico settore, partendo
magari da una chiosa a una tua affermazione di una decina di anni fa che mi aveva particolarmente colpito: “il teatro italiano è stato forse il migliore del mondo
negli ultimi cinquanta anni”…
L. M. Beh, dal punto di vista della forma e della
cosiddetta presenza attoriale il teatro italiano ha iniziato negli anni ’60 una
rivoluzione di cui oggi, purtroppo, si vanno perdendo le tracce a causa
dell’azione letteralmente reazionaria del cosiddetto teatro di narrazione e di
cosiddetto impegno sociale (quando l’unico vero impegno di tanti, troppi
sedicenti artisti è solo quello di non andare a lavorare regolare). Attori e
autori di atti teatrali straordinari che per me furono Carmelo Bene, Leo de
Berardinis, Perla Peragallo, Carlo Cecchi, Antonio Neiviller, Victor Cavallo,
Danio Manfredini, Alfonso Santagata, Claudio Morganti ecc., accomunati dal rispetto e dall'amore
per il grande Eduardo de Filippo, che era un sodale di Pinter, da cui era
stimatissimo, no uno scrittore vernacolare come pensava quel deficiente di
Edoardo Sanguineti, professorucolo di cui Dio (Vila Matas) se ne disinteressi più che può; ma anche
personaggi più ameni, se vogliamo, come Roberto Benigni e Massimo Troisi,
talmente evoluti, nel loro modo di esprimersi, che senza quel retroterra
teatrale non sarebbero mai nati (vale per Antonio Rezza, per Andrea Cosentino, per Roberto Abbiati e chissà quanti altri). Teatrale del resto fu la formazione, poca,
proprio di Benigni, che posso considerare il mio padre artistico, o meglio il mio zio artistico, visto che fu
la visione, molteplici volte, del suo Cioni Mario, quando avevo appena 15 anni,
a sconvolgermi la vita e dirigermi verso il teatro, deviandomi dalla scrittura
cui ero destinato fin da bambino, per via che gli insegnanti già dalle
elementari proprio da quel punto di vista mi elogiavano e qui e là. Non so
ancora se questo deviamento fu un bene o un male, ma ti posso dire che ho
maturato nei decenni una invidiabile, credo, tecnica teatrale, soprattutto nel
mettere in scena spettacoli con un solo attore (ho anche rifatto con discreto
successo proprio il “Cioni Mario”, sfidando il confronto che a prima vista sembrava improponible), tecnica che da scrittore, almeno per ora, anche dopo dieci anni di intensa ed esclusiva attività scrittoria, mi sogno. Quanto
all’affabulatorio non è di derivazione teatrale nel senso appena detto, anche
perché il teatro che considero migliore al mondo lo diventò mettendo la parola
al posto suo, soprattutto l’enfasi della parola su ci si basavano, e si basano, i
cosiddetti attori mattatori, Vittorio Gassman su tutti. Fu infatti un teatro
borbottato, bisbigliato, semmai strutturato in maniera musicale, come i celebri
monologhi di Carmelo Bene, affabulatore alla rovescia, se così posso dire.
Spesso, soprattutto durante gli anni ’80, un altro grande di cui mi vanto di
essere stato amico e in qualche modo allievo, Carlo Cecchi, biascicava al punto
che le vecchie signore che frequentavano il suo teatro fiorentino si rivoltavano
dicendo a voce alta: sine, gliè bravo e bello, ma quine ‘un si capisce nulla!
F.
M. Abbiamo citato prima, tra gli altri, Roberto Bolaño e Enrique Vila- Matas,
due scrittori che hanno tracciato, o stanno tracciando, un solco profondissimo
di autorevolezza autoriale, rispetto alla quale il panorama italiano degli
ultimi decenni risulta ancora più miserevole, forse, di quello che appare e
sostanzialmente è. C’è a tuo modo di vedere qualche eccezione da sottolineare,
qualche esempio virtuoso che sia almeno il sintomo di una possibile inversione
di tendenza rispetto alla palude venefica dove sguazzano allegramente mediocrità
e insignificanza diffusa, editors arrembanti, l’afrore nauseante di sedicenti
scuole di scrittura (o di frittura) e una critica da avanspettacolo?
L. M. Ti
sembrerà strano, Francesco, ma io ti ribadisco che ho grande rispetto e stima per
il romanziere Sandro Veronesi, pratese, non dimenticare, pure una volta mio
amico nella vita, non grande amico ma amico; e ho grande rispetto e stima per
Edoardo Albinati, due allievi di Alberto Moravia che hanno talmente superato il
maestro da diventarmi quasi sveviani… Certo, il primo non è affatto
un’inversione di tendenza, anche se il suo personaggio di Caos Calmo e Terre
Rare, Pietro Paladini, rappresenta una svolta letteraria forse pari a quella di
Zeno Cosini. Il secondo, forse, sottraendosi in maniera così prepotente
all’egotico, diciamo così, dimostrandosi di una statura etica quasi tolstoiana,
ostinandosi a fare per tutta la vita l’educatore in carcere invece di dirigersi verso una sicura carriera di dirigente o autore televisivo, per esempio, che gli sarebbe spettata quasi per codice genetico (lo
stesso Veronesi, no? Prima dirigente a Telepiù, esperienza sulla quale si basa
Caos calmo; in futuro, prevedo malamente per lui, in Rai come Presidente o giù
di lì), dimostrando che si può davvero scomparire dentro o a lato o sotto o
sopra la propria opera. Poi io non è che leggo tutto tutto, ma Emanuele Trevi, di nuovo per esempio, ancora giovane e scrittore coi fiocchi, come si dice, potrebbe non
aver nulla da invidiare proprio a Vila-Matas, anche se quest'ultimo, sapendo di
essere diventato via via un Dio, immagino, ha così accelerato il processo di
sparizione, rispetto al pur abbastanza etereo Trevi, da risultare quasi
irraggiungibile. Forse Trevi non ci crede di essere un Dio... (NDT il tema del
Dio che non crede in sé stesso è l'architrave del volume 11 dell'opera Omnia di LM).
Di Bolaño non ce n’è e non ce ne possono essere, ovvero ci sarebbe Larry
Massino… non per vantarmi, di nuovo, che però un personaggio compiuto come
Arcimboldi se lo sogna. Solo speriamo che non mi venga il cancro al fegato e
patatracche. Quanto alla palude, io ho letto le inattuali di Nietzsche a 18 anni
appena, dove il filosofo baffuto, scusami per la banalità, liquida tutto il lerciume accademico-estetico
della sua epoca, così come nelle prime 30 pagine della Nascita della tragedia
liquida tutta la patina di sociologismo che aveva infestato per decine di
secoli, e che ancora, purtroppo, infesta, proprio la parte maggioritaria (che
brutta parola!) del teatro; fragile patina che riveste come un belletto che non dura
neanche mezza serata la smisurata ambizione di tutti quegli impiegati del
putrido culturificio nazionale, per non dire nazionalista, o ancora peggio
nazionalsocialista, che altro non vogliono che predicare pagati profumatamente
dagli schermi delle televisioni, pubbliche e private. Ogni rifermento a Roberto
Saviano è puramente voluto, anche al suo fascismo esplicito che gli permette
proprio dagli schermi del malefico elettrodomestico di spernacchiare gli
scrittori e i narratori che osano un minimo sul piano formale e si distaccano
dai bisogni imbelletatòri del cosiddetto pubblico, che fosse per esso nessun
vero artista avrebbe diritto di nascere, pubblico che peraltro per la
letteratura non c’è più da mo, essendoci rimasti solo scrittori e narratori,
pubblicati e no, che leggono, neanche troppo, altri scrittori e narratori (te la
ricordi la
lotteria Gratta e pubblica?
https://accademia-inaffidabili.blogspot.com/2011/06/epistola-sesta-agli-editori.html).
I narratori-giornalisti come Saviano, ma in questo caso è perfettamente
appropriata la definizione di scriventi di Roland Barthes, scriventi questurini,
aggiungerei… con la scusa di voler comunicare con il maggior numero di persone
portano a zero, e anche meno, il contenuto espressivo delle loro oper(in)e,
riducendo il campo letterario a una fetida stanzetta di un qualunque redattore
giornalistico di provincia. E andiamo avanti così… Quando vedo l’altro
questurino pontificare quasi quotidianamente in Tv, Gianrico Carofiglio, mi va
il sangue al cervello. Per fortuna quando uno c’ha da fare un’opera omnia
complicata come la mia, non è che guarda tanta televisione. Quanto alla critica,
non ne può più esistere una, perché è un compito che si sono assunti gli
scrittori stessi, grazie a Dio (Vila Matas di nuovo), così come, lo sai meglio
di me, c’è tanta meravigliosa critica nell’opera di Bolaño, specializzato pure,
come Houellebecq, nel demolire l’intero mondo letterario, artistico,
intellettuale e accademico universitario. Speriamo che l’università stessa ne
prenda atto, un giorno, rifacendosi all’esperienza di straordinari professori che
rinunciarono schifati alla cattedra a favore della libertà nella scrittura, come
Giorgio Manganelli e Alfonso Berardinelli. Ma non succederà mai, temo, perché
sono loro, i critici decrepiti (qualche eccezione ci sarà per forza...), a decidere sulla loro stessa sorte accademica, poveri
studenti, che gli toccherà ancora minimo per decenni sorbirsi le lezioni di
questi sfioriti professori invece di quelle di scrittori e narratori affermati e no, che almeno sanno come si fa un romanzo, o un racconto, o una poesia,
sanno cioè che nei casi migliori si tratta di carne viva finemente triturata e
trasformata in parole. Tra i libri notevoli vorrei citare Di questa vita
menzognera, di Giuseppe Montesano, che però non si è mai più espresso a quei
livelli, e Animale notturno di Andrea Piva, che pure ritengo due capolavori. Di
Montesano che si può dire? Scrive meno fiction e più critica, da un po' di tempo, facendo
immaginare che stia andando nel verso del romanzo critica alla Vila-Matas,
appunto. Piva invece, che è ancora molto giovane, è un altro caso che mi indigna
e me lo rende ammirevole insieme. Il fatto che nessuno se lo inchiappetti, che
se ne resti appartato a scrivere sceneggiature e a partecipare a tornei di poker
on line, dove pare sia un campione, me lo rende simpaticissimo anche umanamente,
avendo avuto io stesso un remoto passato da studente giocatore, i dieci anni più
svagati della mia vita, perché praticamente i miei compagni di gioco, che
sapevano di essermi inferiori, non si sottraevano in nessuna maniera al quotidiano travaso
monetario che mi permetteva di condurre una vita quasi di lusso, che Dio (Vila
Matas, Vila Matas, Vila Matas), anche se non c’è, gliene renda merito a tutti quanti. Speriamo che qualcuno un giorno
me lo faccia conoscere, Andrea Piva (ciao Davide). Mi fermo qua, che già sono
andato troppo lungo, non senza anticiparti che se mi fai una domanda sui comici
di adesso non posso che farti una testa tanto sul meraviglioso Ricky Gervais.
F. M. In effetti il “comico”, nella sua dimensione artistica prima ancora che
ludica, è un vestito che ti calza a pennello. Ma prima di farci girarelacapa col
meraviglioso R. G., mi piacerebbe tu entrassi un po’ più nel merito del rapporto
estetica-etica al quale pure facevi riferimento. È un tema che mi sta
particolarmente a cuore e, nel mio pluridecennale artigianato verbale ormai
passato agli archivi, ho sempre fatto di quel binomio la base imprescindibile di
ogni esplorazione. Penso, stando a quello che dici, che la questione non sia
molto diversa per te…
L. M. L’etica dell’estetica, se così vogliamo dire, è che
l’espressione non può quasi mai prescindere dal possesso di una forte capacità tecnica di chi
la produce. Se vogliamo riferirsi alla letteratura italiana, al contrario di
quanto possa pensare il volgo cultural-giornalistico, è in questo senso
profondamente etico Ermanno Cavazzoni, non il reazionario Roberto Saviano. So
che almeno tu mi capisci. Comunque a questo punto voglio anche rispondere alla
domanda su chi sono secondo me gli scrittori italiani viventi più importanti.
Presto detto: Gianni Celati, Ermanno Cavazzoni, Walter Siti e Emanuele Trevi, tutti e quattro, sottolineo, scrittori profondamente etici, oltre ai già citati Veronesi e Albinati. D’altra parte,
tornando all’arte del teatro – che mi sono trovato a praticare per caso, perché
nella mia città, una delle capitali tessili del mondo, c’erano più attori che
tessitori, come aveva ben inquadrato Benigni in un’intervista di una trentina di
anni fa -, il regista inglese Peter Brook, al cui comportamento e pensiero mi
sono ispirato fin dall'inizio del mio teatrare, ha sempre sostenuto che senza etica non si può fare arte.
E ha ragione marcia. Si può fare magari spettacolo, aggiungo io, ma non arte,
anche se, va ammesso, in rari casi diventa arte anche lo spettacolo,
specialmente nel caso dei comici, basti pensare a Petrolini, Totò, Renato
Rascel, Paolo Panelli, Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi, Bice Valori, Franca Valeri, Renato Pozzetto, Massimo Troisi, Nino Frassica ecc.
F. M. Ti faccio una domanda conclusiva,
perché so che è un argomento che ti piace trattare: cosa ne pensi della
cosiddetta satira politica?
L. M. Detto in due parole penso che è una truffa ai
danni delle menti deboli. La satira, sappiamo tutti, è un sottogenere del
comico. Il comico, te lo dico io che ci ho dedicato tutta la vita, scaturisce
sempre da una grossissima disperazione, nonché da un rigore formale da cui non si può prescindere, senza rispettare il
quale, penso soprattutto alla complicata faccenda dei tempi comici, non fai ridere nemmeno
il tuo gatto. La satira, invece, è solo speculare alla brutta politica, ciò che
per me vuol dire che è sostanzialmente brutta comicità. I satirici, insomma,
cercano consenso, nel caso italiano più disgustoso cercano proprio voti nelle
urne elettorali, con un cinismo che a volte non hanno nemmeno i politici; e
cercano la risata spiccia anche quando è del tutto evidente che ovunque
l’estetica della comicità va contro le esigenze immediate del pubblico e contro
la risata fragorosa strappata con le barzellette e con il livore, penso di nuovo
a Gervais, ma anche all’italianissimo Antonio Rezza. Insomma, se volevi farmi
dire che il ragionier Giuseppe Piero Grillo mi fa letteralmente schifo sia come
uomo che come attore satirico, ci sei riuscito perfettamente. Ciao a te e ai due
tre lettori che mi seguono. Alla prossima.
PS: Post e autore del post in fase di correzione.