Succedon robe strane nel nostran letterativo, sopraditutto quello che dovrebbe da essere il più avanzato (a chi?): mi riferisco ai blog, che se la cantan e se la suonan e pubblican di poeti che non si posson da guarda’, ma poi... Infatti, la poesia qui la poesia là, Sanguineti su Sanguineti giù, poi muore uno non qualunque come Giovanni Giudici e nessun gli manda nemmen un saluto. Boh.
La classifica dei blog letterari qui. L’unico che si ricorda è il bravo Giuseppe Genna qui, che in classifica tra i primi trenta blog non risulta (rettifico, Primo Amore si era ricordato, qui.)
Io mi interesso poco di quelli che scrivon poesia, li capisco poco, l’ho già detto, qui nel blog e altrove: la poesia a volte mi garba, ma questa mania che han tutti di scriver poesie non la capisco. Pe’ limitismi mii. Però alcuni poeti mi garban smisurato. Giovanni Giudici era uno di questi. Mi conubbe qualche decina di anni fa, mi pare due, partecipando a un convegno al quale IO, autorevolmente anonimo, assistevo. Uno di quei convegni che si facevano una volta, che la gente ci andava più che altro per scoprire le pècche di questo o quel famoso, per poter dire: chi?! quello? Mhhh. Gli concessi qualche breve conversazione nelle pause. Di me gli garbò più di tutto l'irriverenza saputa (così mi rammèmoro che disse). Mi garbaron di lui il suo essere modesto e minuto, la gigionesca sembianza di impiegato di retrovia, di quelli che fanno gli avanzamenti di carriera per non altro merito che l'anzianità. Mi garbaron di lui il suo tragico umorismo, le poesie impastate con malta linguistica a buon mercato, da lui stesso lette, davanti a un pubblico miserabilmente colto che non pareva apprezzare abbastanza (ridevan poco, a fronte dell’umorismo parecchio di Giudici), forse perché non eran loro al centro dell’immaginario del poeta, che invece mi pareva avrebbe più facilmente incantato tra le nobili categorie di idraulici, estetiste, postini, rammendatrici, metalmeccanici, taxisti evvia evvia. Durante una delle pause, quando prese più coraggio, parlammo della sua esperienza all’Olivetti, quello che fu un ineguagliato centro di cultura finanziato da un grande industriale. A quei tempi coltivavo l’idea forse sciagurata che i soldi per la cultura dello Stato fossero men attraenti dei soldi per la cultura delle aziende, come fu il caso appunto dell'Olivetti di Adriano Olivetti, e per farlo ridere, Giudici, dichiarai iperbolicamente che almen in ambito culturale secondo me son più sporchi i soldi dello Stato dei soldi della mafia. Rise. Parecchio.
Al contrario di quanto pensano i sentimentali, muoiono i poeti e muore la poesia. Ma penso e mi auguro che Giovanni Giudici diventerà un classico della poesia italiana, al posto di Pasolini, per le stesse ragioni che usa Alfonso Berardinelli, citato nel bell’articolo commemorativo di Franco Cordelli, pubblicato dal Corriere della Sera, qui: «Giudici è un poeta senza miti, leggendo il quale a nessuno può venire in mente di mitizzare la poesia e i poeti. Si leggano i suoi versi, che sono probabilmente i più melodici, i più abilmente dissonanti della poesia italiana recente. E si dimentica la poesia-valore, la poesia-mito (...) Giudici è l'esatto contrario di Pasolini, che instaura incessantemente il mito di se stesso come poeta scrivendo un po' come viene, sicuro com'è di trovarsi sempre, per natura e per destino, nella grazia della poesia»